Da sempre l’uomo si interroga sulla natura e sugli organismi che popolano la terra e il mare. Cosa ci accomuna?
Come gli animali percepiscono il mondo che li circonda? Gli animali agiscono solo per istinto o vi è qualcosa in più? In definitiva si può parlare di “mente” degli animali? Negli ultimi anni dagli studi effettuati sulle capacità cognitive di molti animali, emergono molti interrogativi che investono sempre più sul campo etico, sociale , ma anche quello prettamente scientifico. Ad oggi è chiaro che si è andato oltre il concetto cartesiano, che vede le azioni degli animali determinate da sequenze di risposte automatiche, considerando le motivazioni sotto una base evolutiva, biologica e psicologica. Ora come non mai l’opinione pubblica è maggiormente consapevole nel riconoscere gli animali come esseri senzienti, piuttosto che meri oggetti.
Per quanto riguarda i cetacei, da sempre vi sono storie e leggende di come questi animali interagiscano con noi in modo così complesso da essere considerati “umani”. Miti e racconti su esemplari che salvano bagnanti dai pericoli del mare, si mescolano alla realtà scientifica che cerca di andare oltre la barriera dell’antropomorfismo, ovvero di riconoscere in animali sentimenti umani. Ma dopo aver trascorso tanto tempo sul campo con gli animali che si studiano, quasi inevitabilmente i ricercatori sviluppano un senso di vicinanza e persino di amore nei loro confronti. Forse per molti, ciò può essere considerato come un fattore che oscura l’obiettività, che gli scienziati devono tenere nei confronti dello oggetto della propria ricerca. Ma in realtà è questa empatia che trasforma l’oggetto in soggetto, dando allo studioso intuizioni fondamentali. Molto viene compreso quando si osserva l’animale per quello che è, un soggetto con la propria vita. Ed è lì che si riesce ad accedere ai segreti celati, come per esempio la socialità, l’empatia, il gioco, l’apprendimento e l’intelligenza. Si deve dunque riuscire ad avere un certa obiettività in ambito scientifico, ma non escludere alcun tipo di ipotesi.
Numerosi sono i lavori di ricerca, sia in natura sia in cattività, sulla complessità comportamentale, cognitiva ed emotiva dei cetacei. La letteratura comportamentale e psicologica abbonda di esempi delle sofisticate capacità cognitive dei cetacei. Per esempio sappiamo che hanno buona memoria e consapevolezza di sé, sono in grado di risolvere problemi e sono dotati di molte altre abilità che evidenziano la loro capacità di elaborare informazioni e di gestirle di conseguenza. La complessità delle comunicazioni fra i cetacei, è stata spesso considerata come un ulteriore potenziale indicatore della loro intelligenza. Infatti da studi di acustica è nota una diversità nella comunicazione tra questi animali, un complesso linguaggio, che si distingue tra differenti zone e gruppi familiari diversi, utilizzato per interazioni tra individui o per la predazione. In natura molto noti e di grande impatto mediatico sono i casi di orche o di delfini che trascinano i propri piccoli dopo la loro morte, ad evidenziare come possa essere forte e profondo il rapporto tra madre e figlio. Infatti da molti articoli si evince un pattern simile tra vari gruppi familiari, dove la consuetudine è che i figli rimangano nel gruppo di origine e che il rapporto tra madre e piccolo sia fondamentale, tramandando da generazione in generazione comportamenti sociali o strategie di caccia. Dunque si tratta di animali complessi, al livello neurologico e in particolare al livello limbico, area alle emozioni. Paradossalmente, è proprio l’intelligenza che ha portato l’utilizzo di queste specie per gli spettacoli nei delfinari. Grazie alla loro capacità di comprendere le istruzioni impartite dagli esseri umani, riescono ad imparare giochi e numeri acrobatici al solo fine di intrattenere il pubblico. Fatta questa premessa sulla la loro natura, la ricerca negli ultimi tempi si sta occupando di capire le condizioni di salute comportamentale in cattività e su quali possano essere le possibili soluzioni, nell’ambito del benessere animale.
Un lavoro in particolare colpisce per il suo impatto e per la sua crudezza, ovvero “Tooth damage in captive orcas (Orcinus orca)” di John Jetta, Ingrid N. Visser et alii che indaga sulle lesioni dentali causate da comportamento ossessivo nelle orche in cattività. Si nota infatti come questi animali, si provocano queste ferite masticando i bordi delle vasche in maniera ossessiva.
Lo studio analizza e valuta il danno alla dentizione di questi animali, esaminando le associazioni tra patologia dentale, sesso, struttura, durata della cattività e altri fattori riscontrabili nelle orche in questi delfinari. Sono stati valutati i denti mandibolari e mascellari da immagini dentali di 29 orche in cattività negli Stati Uniti, ogni dente è stato valutato per usura coronale, per usura alla linea gengivale o al di sotto di essa, se fratturati o assenti. Statistiche riassuntive descrivono la distribuzione e la gravità delle patologie, in particolare è stato effettuata un analisi sulla relazione tra patologia e la durata della cattività. Ciò che ne risulta è che il 24% mostrava un’usura dei denti coronale mandibolare considerata “maggiore” ed “estrema”, con più del 60% dei denti fratturati e mancanti. Chi presenta questo tipo di disturbi sono orche che superano i 10 anni di cattività, in particolare si osserva nelle femmine. Il tasso così alto in questi esemplari probabilmente può essere riconducibile allo stress dato dalla separazione dei piccoli. E’ infatti comune in queste strutture avere dei progetti di accoppiamento, e che i piccoli vengano separati dalla madre dopo 5 anni. Come detto in natura ciò non avviene, e questo può scatenare uno stress notevole nella madre che sfocia in un comportamento ossessivo. Oppure può succedere che la madre evidenzi i sintomi di questo disturbo e che il piccolo apprenda questo comportamento ossessivo. Altri esempi possono essere delfini e beluga che ripetutamente svolgono attività stereotipate nel tempo, come sbattere il capo sul vetro delle strutture o nuotando sempre nello stesso punto.
La questione ad oggi è ancora molto dibattuta e sebbene l’esempio appena citato possa essere di riferimento per comprendere le condizioni di salute psico-fisica di questi animali, purtroppo la comunità scientifica è ancora molto divisa sull’etica nel detenere i cetacei in cattività.
Sappiamo però vi è una soluzione, creare un ambiente più arricchito e più stimolante per evitare questo comportamento ossessivo. Inutile dire che questi animali non sono in grado di vivere in natura se lasciati liberi, in quanto troppo imprintati dall’uomo. Un team di scienziati, tra neurobiologi e biologi marini, hanno creato il “Whale Sanctuary Project” , un’organizzazione che ha lo scopo di creare un modello di santuario sul mare, in cui balene e delfini possano essere riabilitati o possano vivere permanentemente, un ambiente che massimizzi il benessere e l’autonomia e sia il più vicino possibile al loro habitat naturale. È la prima organizzazione focalizzata esclusivamente sulla creazione di santuari marini in Nord America per orche e beluga che sono in pensione da strutture di intrattenimento o sono state salvate dall’oceano e hanno bisogno di riabilitazione o cure permanenti.
Come team scientifico di Filicui WildLife Conservation non ci esprimiamo se sia giusto o sbagliato andare in queste strutture, diamo al lettore i mezzi per capire lo stato di salute di questi animali, augurandoci un giorno migliori condizioni per tutti i cetacei, sia in natura sia in cattività.
Se vi appassionano questi temi vi consigliamo, oltre alla lettura dell’articolo citato, libri come:
“Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali?” Di Franz de Wall
“Giustizia selvaggia:la vita morale degli animali” di Marc Bekoff e di Jessica Pierce
“Quando gli elefanti piangono” di Jeffrey Moussaieff Masson e Susan McCarthy
[…] I delfini tursiopi, all’interno dei delfinari, vengono costretti a cibarsi di pesce morto, comportamento che in natura non avviene; vengono immessi e tenuti in vasche di cemento che ne limitano le capacità di orientamento attraverso il sonar; il delfino è abituato a percorrere ogni giorno da 60 a 90 chilometri, che in cattività gli sono privati. In questo modo gli esemplari cadono in depressione e per far si che rimangano in vita mantenerli in vita, così da poter continuare a lucrare a spese del loro benessere, gli vengono somministrati psicofarmaci. […]