Per individuare una soluzione all’inquinamento marino causato dalle microplastiche è fondamentale analizzare la produzione, il consumo e la gestione delle materie plastiche dopo il loro utilizzo.
Lo smisurato consumo odierno delle plastiche è dovuto al fatto che queste soddisfano numerose esigenze applicative ad un prezzo ridotto, ed è per questo che, dalla loro invenzione nel XIX secolo, sono tra i materiali artificiali più utilizzati dall’uomo.
Le plastiche non sono sempre esistite nella forma di polimeri sintetici che conosciamo oggi, derivati dal petrolio, ma hanno difatti percorso una vera e propria evoluzione: partendo dall’utilizzo di materiali naturali con proprietà plastiche intrinseche, come la gommalacca e la gomma, procedendo in seguito con la modifica chimica di materiali naturali, generando così materiali plastici semisintetici come la Parkesine e la Bakelite, passando poi alla produzione di massa di materie plastiche sintetiche derivate dalla distillazione frazionata del petrolio, come il polipropilene isotattico (Moplen) ed i tecnopolimeri.
Le plastiche moderne sono polimeri sintetici che rappresentano circa il 25% della produzione dell’industria chimica, con attualmente più di 4.000 formulazioni diverse che fatturano miliardi nell’economia mondiale. Sono dei materiali leggeri e duraturi, economici da produrre e non tossici. Le materie plastiche possono essere create in infiniti colori, forme e consistenze in base all’aggiunta di coloranti, plastificanti, indurenti, ammorbidenti, schermi UV e agenti antimicrobici.
Le materie plastiche esistono dunque in molte varietà, ma possono essere raggruppate in due grandi famiglie di polimeri:
- Termoplastiche (TP): dopo la loro formazione, se riscaldate, riacquistano plasticità e possono quindi essere nuovamente rimodellate. Alcuni esempi di termoplastiche sono il Polietilene tereftalato (PET), e il Cloruro di polivinile (PVC). Il primo è attualmente il più utilizzato, mentre il secondo è stato largamente abbandonato soprattutto se destinato a contenere alimenti, in quanto è soggetto al rilascio di cloruri tossici.
- Termoindurenti (TI): la prima forma è quella definitiva in quanto non possono essere rimodellate in futuro. Un esempio di plastica termoindurente è il poliuretano (PUR).
Grazie alle loro caratteristiche, le materie plastiche vengono impiegate in molteplici settori, come imballaggi, edilizia e costruzioni, mobilità e trasporti, sanità, elettronica, agricoltura, sport e intrattenimento, ecc.
Questi materiali possono però rappresentare un rischio ecologico se non correttamente gestiti a “fine vita”. Nessuna delle materie plastiche di uso comune è biodegradabile, di conseguenza invece di decomporsi, i rifiuti di plastica si accumulano nelle discariche o nell’ambiente naturale.
Una volta immessi nell’ambiente, nel corso del tempo l’insieme di processi fisici, biologici e chimici (come fotodegradazione e ossidazione della matrice polimerica causata dagli UV, scissione di legami per alte temperature, abrasione ecc) può ridurne l’integrità strutturale, con conseguente frammentazione in dimensioni sempre più piccole, fino a raggiungere dimensioni microscopiche.
Questi frammenti microscopici sono definiti “microplastiche secondarie” e si distinguono dalle “microplastiche primarie”, materie plastiche prodotte per essere di dimensioni microscopiche, tipicamente utilizzate nei cosmetici, in prodotti per la cura personale, in medicina come vettori per i farmaci e nelle industrie come riempitivi o vettori. Le microplastiche possono essere classificate, oltre che dalla propria fonte, anche dalla loro taglia (1-5 mm), colore (trasparente o colorate), forma (fibre, frammenti, film) e stato di degradazione (che dipende dall’agente che lo causa).
Per valutare il rischio ecologico delle microplastiche nell’ambiente marino è importante definire criteri metodologici standard per stimare l’abbondanza, la composizione e la distribuzione delle microplastiche. I campioni per le analisi di laboratorio possono essere raccolti dalla colonna d’acqua, dai sedimenti e dal biota marino.
Il campionamento della colonna d’acqua e dei sedimenti di solito viene effettuata tramite l’estrazione diretta dall’ambiente di oggetti riconoscibili ad occhio nudo. Per il campionamento di microplastiche nel biota marino si può ricorrere al campionamento diretto, che prevede il sezionamento di fegato, branchie e viscere degli organismi con successiva digestione chimica per sciogliere i materiali organici e isolare le microplastiche, oppure al campionamento indiretto, in cui gli organismi sono divisi casualmente in gruppi, lasciati a digiuno per acclimatarsi alle condizioni sperimentali, successivamente sostentati con alimento mescolato con microplastiche visibili (fluorescenti), ed infine sezionati.
In ogni caso, uno smistamento visivo delle microplastiche può condurre a errori, ed è perciò consigliato l’impiego di metodi più accurati, di tipo chimico-fisico.
L’insieme di queste tecniche permette una migliore comprensione dell’abbondanza e della composizione delle microplastiche, ma non delle modalità con cui queste si distribuiscono nell’ambiente e del loro impatto negli ecosistemi.
Le microplastiche in ambiente marino derivano dallo smaltimento indiscriminato di rifiuti di plastica che vengono trasferiti direttamente (turismo costiero, pesca ricreativa e commerciale e industrie marine) o indirettamente (sistemi di drenaggio domestici o industriali, ma anche dalla lisciviazione di siti di raccolta di rifiuti) nei nostri mari e oceani. Una volta immesse in ambiente marino, la distribuzione delle microplastiche dipende maggiormente dalle condizioni ambientali, che includono le correnti oceaniche, la miscelazione del vento, le proprietà chimico-fisiche dei polimeri e la chimica della colonna d’acqua e dei sedimenti.
Le microplastiche in ambiente marino sono quindi soggette a varie trasformazioni che influenzano la loro aggregazione, deposizione e trasporto. Inoltre, grazie al grande rapporto superficie/volume e alla idrofobicità (incompatibilità con l’acqua) delle microplastiche, queste rappresentano un substrato persistente, ideale per essere colonizzato da diatomee, batteri, piccoli invertebrati e HAB (Harmful Algal Bloom).
In seguito alla formazione di questi aggregati marini o all’incorporazione in pellet fecali, le microplastiche perdono galleggiabilità e raggiungono il fondale marino, diventando così biodisponibili per la fauna bentonica.
La forte sovrapposizione delle microplastiche con gli organismi alla base della catena trofica marina evidenzia il loro potenziale di interazione con un’ampia varietà di specie. Attraverso il trasferimento trofico infatti, le microplastiche possono essere traferite a predatori di grandi dimensioni che si cibano di prede contaminate, ovvero di organismi che, sulla base di segnali sensoriali, confondono le microplastiche per cibo.
L’ingerimento diretto o indiretto di microplastiche conduce ad una serie di effetti avversi, come blocco intestinale, lesioni fisiche, comportamento di alimentazione alterato e riduzione dell’allocazione energetica, con effetti a catena sulla crescita e sulla capacità riproduttiva.
Altri esiti evidenziati sono l’assorbimento attraverso l’intestino e le membrane cellulari, che innescano l’apoptosi e l’up-regulation delle vie di stress e di riparazione di danni.
Gli effetti chimici causati dalle microplastiche sono dovuti a sostanze che possono imitare, competere o interrompere la sintesi di ormoni endogeni, e ai contaminanti organici persistenti , bioaccumulativi e tossici. L’ingestione di microplastiche può quindi introdurre tossine alla base della catena alimentare, da dove esiste un potenziale di bioaccumulo, processo che causa negli organismi contaminati un aumento esponenziale dei livelli tossici man mano che si sale di livello trofico.
Diversi studi di laboratorio hanno esaminato gli effetti delle microplastiche in più specie marine, incentrandosi maggiormente sugli invertebrati bentonici marini (ovvero filtratori, sospensivori e detritivori) ma anche su organismi di maggiori dimensioni come pesci, tartarughe marine e foche. Di recente, data l’onnipresenza delle microplastiche negli ambienti terrestri e acquatici, alcuni studi hanno ricercato potenziali danni alla salute dell’uomo. Esistono diverse vie di contaminazione dell’essere umano, tra cui l’acqua potabile (di rubinetto o in bottiglia), le specie ittiche di importanza commerciale come i frutti di mare e i prodotti abiotici alimentari come il sale marino. Altre fonti di contaminazione da microplastiche sono i prodotti per l’igiene personale (dentifricio, scrubs, detergenti) ed infine persino l’atmosfera.
L’inalazione di microplastiche potrebbe infatti verificarsi dopo il loro trasporto aereo, determinato dall’azione delle onde in ambienti acquatici o dall’impiego di fanghi di depurazione delle acque reflue. A causa della scarsità di dati a disposizione, al momento è difficile stimare l’entità degli effetti avversi che la contaminazione da microplastiche comporta nell’uomo.
Grazie alle loro ridotte dimensioni, le microplastiche potrebbero essere assorbite mediante fagocitosi (dai macrofagi dell’epitelio intestinale) ed endocitosi (dalle cellule endoteliali) e traslocate attraverso l’intestino nel sistema linfatico. Le microplastiche sono inoltre in grado di interagire con i fluidi corporei e di adsorbire grandi proteine, causando l’alterazione del sistema immunitario dell’intestino, provocando un’infiammazione locale.
L’essere umano potrebbe anche essere soggetto alla tossicità delle microplastiche, per via degli additivi aggiunti durante la produzione delle materie plastiche, come ad esempio l’l’antimonio (Sb) utilizzato come catalizzatore nel PET commerciale che può causare nausea, vomito e diarrea.
Ѐ per questo molto importante monitorare le modalità con cui le microplastiche si inseriscono alla base della catena trofica marina, dove sono poi in grado di raggiungere i top predators della stessa e persino l’essere umano. A questo scopo, in un recente studio condotto presso l’università degli studi di Urbino e pubblicato nella prestigiosa rivista internazionale Chemosphere (Casabianca, Silvia; Capellacci, Samuela; Penna, Antonella; Cangiotti, Michela; Fattori, Alberto; Corsi, Ilaria; Ottaviani, Maria Francesca; Carloni, Riccardo, Physical interactions between marine phytoplankton and PET plastics in seawater, Chemosphere (2019), 238, 124560) è stata caratterizzata la modalità di crescita di fitoplancton algale su frammenti di plastica (PET).
Sono state selezionate due microalghe: la diatomea marina Skeletonema marinoi, che ha dimostrato di possedere un alto tasso di adesione alla plastica, e la dinoflagellata Lingulodinium polyedrum, che invece mostra scarsa adesione. Sfruttando le diverse competenze del gruppo della Biologa Marina Prof. Antonella Penna e del gruppo della Chimico Fisica Prof. M.Francesca Ottaviani, lo studio si suddivide in due fasi, una di tipo biologico e l’altra di tipo chimico-fisico.
La S. marinoi , come anche la L. polyedrum, è stata inoculata con terreno di coltura all’interno di alcune fiasche, alla cui metà sono stati aggiunti frammenti di plastica PET, per confrontare il comportamento della diatomea e della dinoflagellata in presenza o assenza della plastica. Le microalghe sono state quindi incubate e monitorate durante la loro crescita per un intervallo di tempo da 0 a 25 ore.
Per lo studio chimico-fisico è stata selezionata una particolare tecnica spettroscopica, la Risonanza Paramagnetica Elettronica, che permette, introducendo delle opportune sonde paramagnetiche che riproducono l’azione di componenti cellulari (i fosfolipidi costituenti la membrana cellulare), di caratterizzare in-situ, a livello molecolare, le interazioni che si verificano tra le cellule e la superficie dei frammenti di plastica, per verificare l’ipotesi che il substrato fornito dalla plastica favorisca o no la crescita dell’alga ed indagare il comportamento dei frammenti di plastica una volta dispersi in acqua di mare popolata da specie algali.
I risultati ottenuti dalle analisi biologiche hanno confermato l’ipotesi che il substrato fornito dalla superficie dei frammenti di plastica favorisce una crescita esponenziale nel tempo delle cellule algali S. marinoi, mentre L. polyedrum mostra un basso tasso di crescita. I risultati delle analisi chimico fisiche hanno fornito informazioni interessanti sul meccanismo di adesione delle alghe alla superficie della plastica nell’acqua di mare.
Le cellule S. marinoi si accumulano alla superficie della plastica con un adsorbimento che aumenta esponenzialmente in funzione del tempo di incubazione. Sia la quantità che la forza di interazione aumentano esponenzialmente in presenza di plastica. Per L.polyedrum si formano aggregati meno compatti, che mostrano scarse variazioni nel tempo. Le differenze sono attribuibili sia ad una diversa distribuzione di siti interagenti, sia alla diversa morfologia delle due specie cellulari. L. polyedrum infatti ho forma quasi sferica e “rotola” alla superficie della plastica, mentre la morfologia cellulare di S. marinoi è sfaccettata (tipo cubetti), per cui le interazioni sono facilitate da una maggiore persistenza e facilmente si accumula sulla plastica.
Questa particolare interazione alga-plastica, definita “bioadesione” avviene sempre più di frequente a causa della vasta quantità di rifiuti di plastica che si sta accumulando negli oceani ad un’intensità senza precedenti, e che scomponendosi genera frammenti macroscopici, mesoscopici e microscopici. Dato che i processi di degradazione della plastica sono estremamente lenti, i frammenti microscopici persistono a lungo nell’ambiente marino, rendendo l’inquinamento da microplastiche un problema a lungo termine.